ll restauro del testamento di Marco Polo e la recente edizione del suo clone perfetto (per cui dobbiamo ringraziare la Biblioteca Marciana, la bravissima Tiziana Plebani e le edizioni Scrinium) in edizione ampiamente corredata di saggi a commento di illustri studiosi tra cui mio padre, ha riportato in primissimo piano la figura del grande viaggiatore veneziano, aggiungendo tasselli importanti alla ricostruzione della sua storia personale ma anche generando il solito branco di bufale al seguito.
Prima tra tutte, che Marco non fosse veneziano bensì croato. Alessandro Marzo Magno dal Gazzettino ha smascherato e smontato pezzo per pezzo la colossale bufala costruita a Vienna nel 1856 dall’abate Simeone Gliublich ed alimentata in Croazia, che pretende che Marco sia in realtà Marko.
In realtà la bufala ha origini ben più antiche: il genealogista cinquecentesco Marco Barbaro erroneamente fa venire i Polo a Venezia da Sebenico nel 1033. Invece – scriveva Alvise Zorzi che questa storia l’aveva presa a cuore ed era anche non poco seccato – la famiglia era presente fin dall’anno 971, quando Dominicus Paulo, cioè Domenico Polo, figurava tra i firmatari di un divieto di commercio di materiale strategico con i Saraceni. Alcuni rami dei Polo, cognome di chiara origine veneto-romana e per nulla dalmata, figurano stabiliti in città, a Cannaregio, a San Marco e a San Trovaso, dove nel 1168 figura già un Marco Polo mercante in Levante. Quindi a Venezia era nato il nostro Marco, figlio primogenito di Nicolò e nipote di Andrea Polo da San Severo.
In un bell’articolo Gianantonio Stella cita sempre mio padre che, abbastanza inferocito, ribatte il chiodo: “Ammesso e non concesso che possa esistere l’ipotesi che Marco fosse nato casualmente a Curzola, non solo l’isola che oggi i croati chiamano Korcula era di cultura venezianissima, come testimoniano la città vecchia, le porte con il «Leon» e la cattedrale di San Marco, ma era un feudo della famiglia Zorzi. E tale sarebbe rimasta fino alla metà del quindicesimo secolo”.
Stella poi affonda il colpo “Con lo stesso metro, poiché l’antica Tagaste allora sede episcopale della Numidia si chiama oggi Souk Ahras ed è nell’attuale Algeria, Sant’Agostino per esser nato lì sarebbe un filosofo algerino. Settimio Severo, essendo nato nella romana Leptis Magna a due passi da Al Khums nell’attuale Tripolitania, sarebbe un imperatore tripolitano e Giustiniano nato nell’attuale Zelenikovo in Macedonia sarebbe un imperatore macedone o se volete, visto che governava nell’attuale Istanbul, turco. Per non dire di Giuseppe Garibaldi, che essendo di Nizza sarebbe un patriota francese; anche Italo Calvino, per dire, nacque casualmente a l’Avana ma a nessuno verrebbe in mente di definirlo uno «scrittore cubano»”.
Con buona pace dei turisti croati che ancora sostengono la bufala e dell’impressionante macchina turistica intorno ad essa costruita, a dare il colpo di grazia Marzo Magno cita la studiosa croata Olga Orlic, che nel 2013 ha pubblicato un saggio dal titolo “Il curioso caso di Marco Polo da Curzola: un caso di tradizione inventata” .
La seconda bufala, sostenuta anche da persone assai perbene, è che Marco non sia mai andato in Cina. Le tesi sono a volte astruse, a volte apparentemente ben costruite. Eppure le prove della veridicità di Marco sono nero su bianco, anche se il nero nei secoli è un po’ sbiadito.
È particolarmente interessante che le prove ci giungano da un testamento e da una causa che vede coinvolta la figlia Fantina.
Il testamento è quello dello zio Matteo, Maffio , redatto il 6 febbraio 1310, dove oltre alle consuete formule di lascito e donazione del tempo, figura la dichiarazione che a Marco erano già state consegnate la metà di un gioiello e “tres tabulae auree que fuerunt magnifici chan tartarorum” . Tre tavole d’oro del magnifico Khan dei Tartari : le tre paiza , tre “tavole del comando” d’oro massiccio ornate da una testa di girifalco che imponevano a chiunque fossero state mostrate in tutta l’area dell’immenso impero mongolo di mettersi immediatamente a disposizione: chi le mostrava possedeva lo status di inviato plenipotenziario del sovrano, l’unico che poteva conferirle. La loro presenza nella casa di San Giovanni Crisostomo è la prova più palese del viaggio e della posizione dei viaggiatori nell’ambito dell’impero di Kubilai.
Questa prova viene confermata dai documenti prodotti dalla figlia Fantina che nel 1366 fa causa ai Procuratori di San Marco che rappresentano la famiglia Bragadin, che alla morte del di lei marito, ser Marco Bragadin, non vuole restituirle la dote. Nell’inventario delle cose esistenti in casa di Marco alla sua morte, conservato presso l’Archivio di Stato di Venezia, Procuratori di San Marco, Misti, busta 152, fascicolo 2, e datato 12 luglio 1366, cioè 42 anni dopo la morte di Messer Milione, elenca cose singolari , esotiche , pelo di yak tibetano “lungo tre palmi e sottile come la seta…cosa mirabile”, la testa e le zampe di un Moschus moschiferus , l’animale che produce il profumo forte e penetrante; un drappo di seta ricamato “a stranii animali”, redini di foggia singolare, un rosario , forse musulmano , “a modo di paternostri”, stoffe rare , dipinte , traforate in oro , bottoni d’ambra grandi e piccoli , anelli con rubini e turchesi . Soprattutto, la paiza , la tavola d’oro del comando : grande , pesante , valutata ben venti lire di denari grossi (in quel tempo un artigiano campava comodamente la vita con tre di quelle lire all’anno). Infine un singolare copricapo ornato di gioielli, la “zoia d’oro con piere e perle”, stimata quattordici lire di denari grossi , il copricapo delle donne mongole, probabilmente quello che la principessa Cocacin , scortata dai Polo nel lungo e drammatico viaggio dalla Cina al Khorasan dove doveva incontrare il suo sposo , l’Ilkhan di Persia , aveva donato a Marco in segno di gratitudine . Fantina vince la causa, prova dell’imparzialità della giustizia veneziana ma soprattutto prova della veridicità dei racconti di Messer Milioni.
Altra bufala recentissima è quella del “femminismo” di Marco, che lascia tutto alla moglie ed alle figlie in una società dove si privilegiavano gli eredi maschi. Altro che femminista: Marco non aveva eredi maschi. Lo zio Maffio non aveva avuto figli maschi ed aveva destinato un lascito alle figlie di Marco e un altro (le famose tavole d’oro) a Marco stesso; il fratellastro Matteo era morto senza figli lasciando lui come unico erede; i figli naturali di Niccolò non avevano fatto una grande riuscita. Ecco perché, molto semplicemente, Marco lascia tutto alla moglie, Donata Badoèr, ed alle tre figlie: Fantina, Bellela e Moreta. Le quali sposeranno tre patrizi: Marco Bragadin, Bertuccio Querini e Ranuccio Dolfin (e poi Tommaso Gradenigo).
Donata Badoer ( di antichissima famiglia patrizia, che nei tempi più antica si chiamava Parteciaco) si sarebbe molto arrabbiata a sentire la bufala/leggenda della moglie cinese, con relativo fantasma e (falso) ritrovamento di ossa. L’unico orientale presente in casa Polo era lo schiavo tartaro Pietro, cui nel testamento Marco dona la libertà e un lascito di cento lire di denari piccoli (lo farà fruttare , nel 1328 riceverà dal Maggior Consiglio la cittadinanza veneziana).
Altra bufala da smontare, anche se di fantasia prevalentemente ottocentesca perché di Marco non abbiamo ritratti, è quella dove, prigioniero dopo essere stato catturato da corsari genovesi a Laiazzo (e non a Curzola) in una angusta cella di pietra, detta le sue memorie di viaggio a Rustichello da Pisa. Lo storico Antonio Musarra nel suo libro “1284. La Battaglia della Meloria” ci racconta una storia leggermente diversa. I pisani catturati passarono almeno quindici anni di prigionia genovese ma Marco solo un anno, perché molto probabilmente la famiglia lo riscattò a gran velocità e non perché, come ha scritto Salimbene de Adam, i pisani reduci dalla disfatta della Meloria non volevano essere messi nelle stesse celle con i veneziani e allora si provvedette a mandarli via prima. In questo lungo periodo i prigionieri pisani si erano dovuti organizzare per guadagnare i denari necessari per il vitto, che i genovesi non passavano loro.
Sfruttando la relativa semilibertà di cui godevano, i più colti avevano quindi fondato uno scriptorium, una sorta di casa editrice in cui copiare, tradurre ed illustrare testi letterari, prevalentemente di argomento cortese o enciclopedico, redatti in latino, in lingua d’oil o in volgare. Era una vera e propria corporazione, l’Universitas carceratorum Pisanorum Ianue detentorum, con tanto di sigillo raffigurante due prigionieri in ginocchio davanti alla Vergine.
È tra di loro che si distingue Rustichello, già autore di testi arturiani e poi trascrittore in lingua d’oil – se pur con aggiunte ed abbellimenti – dei racconti di Marco. “Le divisiment dou monde” o anche “Le livre de Marco Polo citoyen de Venise, dit Million, où l’on conte les merveilles du monde”.
Infine, la bufala sostenuta da eminenti studiosi che Marco fosse soprannominato “Milioni” da un avo di famiglia di nome Emilione. In primo luogo non figura nella famiglia Polo alcun Emilio, piuttosto molti Marco, Niccolò, Maffio (Matteo) , secondo la tradizione veneziana di far ricorrere gli stessi nomi in famiglia. Proprio per questa tradizione era uso (lo è ancora) di affibbiare dei soprannomi . Mio padre Alvise cita lo studio su “Gli antichi nomi di persona e la storia civile di Venezia”, di Gianfranco Folena, che ha analizzato i soprannomi ricavati dallo spoglio degli elenchi degli eletti al Maggior Consiglio dal 1261 al 1296-7 , e ci ha dato un Leonardus da Leze “Panceta” , un Jacobus Theupolo “lo Coco” , un Petrus Maripero “lo Bo” , e altri soprannomi come “lo Gallo” , “lo Rana” , “l’Orsato” , “lo Stambecco” ; e un Vitturi “lo Turco” , e uno Zen “Cumano” , e un Leonardo e un Marco Michiel entrambi soprannominati “lo Tataro” , il Tartaro . Il soprannome “Chan” , cane , designa il ramo di famiglia Dandolo dal quale uscirà il doge Francesco . In tempi più recenti, Marin Sanudo il Giovane raccoglierà i soprannomi dei vari rami dei patrizi Contarini e Morosini viventi l’anno 1512 , e conosceremo così un Contarini “Grillo” e un “Cazzadiavoli “, un Morosini “Retaiao” , un Contarini “Ronzinetto” , e via discorrendo . Ancora nel Seicento saranno chiamati “Ronzinetti” i Contarini del grande ramo del doge Domenico II , “Scarponi” i Priuli del ramo dogale di San Felice , e così di seguito . Per non parlare del Settecento, dove nei divertenti scritti di Francesco Zorzi Muazzo troviamo tre membri della mia famiglia, evidentemente di cera pallida e di umor tetro, rispettivamente soprannominati “Agonia”, “Morte” e “Cadavero”.
A questo punto la migliore sembra la tesi di G.B. Ramusio , che il soprannome gli fosse derivato “dal continuo raccontare ch’egli faceva più e più volte della grandezza del Gran Cane , dicendo l’entrate di quello esser da dieci in quindici milioni d’oro , e così di molte altre ricchezze di quelli paesi riferiva tutte a milioni…”.
Se qualcuno ha altre bufale su Marco Polo, parli ora o taccia per sempre.
Pieralvise Zorzi
Bravissima spiegazione della storia vera. Grazie mille.