I Barbacani sono quei travi sporgenti in alcune case a Venezia che servono a rendere più grande la casa “senza stringere troppo la calle”. In pratica dal primo piano in poi i Barbacani sorreggono la zona sporgente come fossero una grande mensola. Quello della foto è in pietra d’Istria e si trova a Rialto. Serviva da modello per tutti i Barbacani veneziani.
Era il 1687 quando, come bottino di guerra, il doge Francesco Morosini portò dal porto di Pireo vicino ad Atene il più grande dei 4 leoni all’ingresso dell’Arsenale. La spedizione era quella famosa in cui i veneziani distrussero a cannonate il partenone, polveriera dei nemici turchi. Sulla spalla destra le famose iscrizioni runiche. Nella metà dell’anno 1000 il futuro re di Norvegia fu esiliato a Costantinopoli dove divenne a capo del corpo d’elite dell’esercito bizantino e conquistò Atene. Le iscrizioni sarebbero quindi un ringraziamento per l’impresa. L’impresa di aver conquistato il porto di Pireo e Atene.
Da Santa Maria Formosa per andare a campo Santa Marina v’é un ponte con i parapetti che negli anni di dominazione austriaca a Venezia lanciava un messaggio chiaro e univoco: via gli austriaci e “Viva Vittorio Emanuele II“. Infatti se esaminate bene il disegno del parapetto (segnate in rosso) sono evidenziate le lettere W V E
Questa è la
ruota degli Innocenti. Una porta che un tempo serviva a mantenere l’anonimato a quei genitori che volevano tristemente lasciare il loro figlio appena nato in altre mani. Invece di abbandonare o, nelle peggior delle ipotesi, lasciar morire il nascituro al Monastero della Pietà esisteva questa porta. E adesso dove si trova questa porta? Inserita nell’ albergo Metropole. In calle.
Venezia città d’acquaLa porta principale del palazzo non era in strada ma quella che dava in rio. Come adesso si usa l’automobile nelle grandi città, a Venezia si usava la barca. Immaginatevi quanto traffico. Ora Venezia si spopola sempre di più, è una città vecchia. Però i vecchi muoiono e la casa resta libera. I nipoti vogliono divertirsi, non vogliono avere tanti figli, non la vendono ma la affittano come Bed & Breakfast, conviene. E i foresti amanti di questa prestigiosa perla occidentale comprano palazzi costosissimi. Ma li usano solo in pochi periodi dell’anno. Venezia quindi si ritrova ad avere 52.000 abitanti. Nel ‘500 era la città più popolosa d’ Europa. E se da un lato questo ci rammarica, da un altro ci fa pensare. Quanti poco sommessi rimbrotti da parte dell’opinione pubblica al sempre più pressante traffico acqueo? Come si fa ad avere molte imbarcazioni in più se la gente è sempre di meno? O è tutto per il foresto? Vogliamo la bicicletta?
Il sale e il vetro erano molto richiesti nell’Oriente musulmano in cambio di ferro. E alla Chiesa non va lo scambio con quelli che in quel periodo tenevano a scacco l’intero bacino mediterraneo. Ma i veneziani se ne infischiarono di minacce e scomuniche vendendo anche schiavi.
Ma lo scopo principale di questo trafficare con l’Islam è il commercio delle spezie, preziose per l’Occidente quanto prezioso era il sale di cui Venezia aveva il monopolio. La droga principale di quei anni era il pepe non esistendo ancora il te, caffè e il tabacco.
Il pepe serviva poi a insaporire alla bell’e meglio la carne di un po’ di giorni non esistendo il frigorifero. I nobili la conservavano nell’urina. D’inverno si usava la neve trasportata dai monti e conservata a fatica.
Assieme ai ricchi proprietari fondiari nasceva la nuova aristocrazia fatta di viaggiatori. Un po’ alla volta si assiste ad un accentramento di potere dove il popolo non contava per nulla; tutto era in mano agli aristocratici, tutto in mano ad una decina di famiglie.
Era il 1297 quando avvenne la cosiddetta Serrata del Maggior Consiglio: una sorta di colpo di stato. Prima, le decisioni politiche erano definite da non più di una quarantina di persone, poi da un’assemblea sovrana, il Maggior Consiglio, con quasi 2000 membri. Ma tutti quei 2000 appartenevano tutti alla stessa classe sociale, il patriziato che comprenderà ricconi e poveri discendenti da famiglie antichissime. Tutto questo per 500 anni.
La politica per il commerciante veneziano non è un mestiere ma un dovere. Il patrizio non ha altre alternative se non quello di appartenere al Maggior Consiglio o ad altre cariche dalle ambasciate ai governatorati ai comandi militari. Può navigare, commerciare e trascorrere molti anni via da Venezia ma quando ritorna deve obbligatoriamente partecipare alla vita politica.
Verso il ‘700 il dovere di servire si fa sempre più rigido e opprimente. Dalla maggiore età, 25 anni, in poi dovrà per forza essere inserito in questo sistema. Può esserne escluso solamente se si fa prete poiché i preti sono assolutamente esclusi dalla politica. O sborsare forti somme in denaro. Il risultato della “serrata” sono 500 anni in cui nessuno poteva essere padrone assoluto della città. Due sono i personaggi che sono stati tentati di cambiare questo sistema: Bajamonte Tiepolo e Marin Falier. Il tutto naufragò con un ampio appoggio del popolo a favore della classe patrizia. Nulla evoca un’impressione di disordine e confusione come una pianta di Venezia o a uno sguardo agli infiniti particolari stilistici eppure il risultato è profondamente armonico. E la stessa sensazione di disordine la da il suo ordinamento politico. Eppure ha durato 1000 anni.
Il doge incarna la maestà dello stato. Indossa vesti sfarzose, manti in ermellino, oro e argento. Il corno ducale lo usa nelle numerose processioni, ma ne ha uno più prezioso chiamato zogia (gioiello) messo solo nel giorno della sua incoronazione in cima alla scala dei Giganti e nel giorno di Pasqua in visita alla chiesa di S. Zaccaria. Alla sua morte viene esposto nella sala del Piovego di palazzo ducale, portato con enorme seguito fino alla chiesa di San Giovanni e Paolo. Il suo corpo viene sollevato nove volte dai marinai al grido di “Misericordia!” Ma quello non è il doge, è un saco de pagia, e maschera de cera. La vera salma viene seppellita di notte nel riserbo più assoluto nella sua tomba di famiglia. Si, c’ é rispetto, devozione e onore alla carica ma non alla persona. I suoi poteri sono stati negli anni sempre più limitati per evitare indesiderate reviviscenze monarchiche e vengono ancor più limitati dai “Correttori alla Promissione ducale”. Il doge è uno dei dei rarissimi magistrati veneziani con mandato illimitato. La votazione per fare un doge è molto complicata. Si inizia con 1000 o 2000 patrizi davanti ad un urna in cui si trovano tante palle di rame quanti sono i votanti ma solo 30 dorate, e il ballottino. Un bambino tra gli otto e dieci anni scelto a caso pesca alla cieca le palle e le consegna ai nobili che gli passano davanti. I trenta che hanno ricevuto la palla dorata rimangono e gli altri se ne vanno. Il nome di ognuno dei dei trenta, gridato ad alta voce dagli uscieri, fa però uscire tutti i suoi parenti. Infatti i votanti rimasti devono appartenere a famiglie diverse. La sorte elimina ventuno dei trenta prescelti e tocca ai nove superstiti la designazione di quaranta elettori subito ridotti a dodici da una nuova elezione. I dodici eleggono, con una maggioranza minima di nove voti, venticinque nuovi elettori, sedici dei quali eliminati subito per estrazione a sorte. Tocca poi ai nove rimasti eleggerne quarantacinque dei quali solo undici verranno designati dalla balla d’oro come elettori degli lettori del doge. Ai quarantun elettori-eletti (che non devono far parte né degli undici, né dei nove, né dei dodici estratti negli undici sorteggi) spetta l’elezione del doge mediante un conclave che può durare anche sessantotto scrutini come nell’occasione di Carlo Contarini nel 1655. Una volta eletto, con una maggioranza di almeno venticinque voti, il doge si presenta al popolo in piazza San Marco nel suo pozzetto sorretto dagli arsenalotti con tanto di lancio delle monete alla folla festeggiante. Il doge, molto spesso, coronava con la sua elezione una lunga carriera al servizio della Serenissima nelle ambascerie, nel governo delle colonie e nell’attività parlamentare. Al doge venivano vietate molte cose. Non poteva proporre misure che aumentassero i suoi poteri, non poteva abdicare se non erano gli altri ad imporglielo. Non poteva ricevere nessuno in veste ufficiale senza la presenza dei consiglieri, non poteva concedere udienze private. Se qualcuno in qualsiasi circostanza gli parlava a tu per tu di affari di stato era obbligato a cambiare discorso. Non poteva esporre in pubblico il suo stemma. Né lui né i suoi parenti non potevano dare o ricevere doni. Nessuno doveva inginocchiarsi dinanzi al doge né baciargli la mano. Non poteva uscire da palazzo Ducale se non in forma ufficiale né andare a teatro o al caffè. Il doge non poteva andare in villeggiatura se non per motivi di salute. Per festeggiare l’elezione di un doge tutta la sua famiglia doveva sostenerne le spese, per non parlare poi del pagamento di tutti i suntuosi corredi dogali e i doni alla basilica di San Marco. Fra le cose vietate al doge c’era pure il proseguimento delle attività mercantili o finanziarie svolte prima della sua elezione. Alla sua morte, celebrati i funerali, c’era il redde rationem dove degli agenti controllavano le entrate e uscite della sua vita per accertare o meno delle irregolarità. Se c’erano erano i suoi eredi a sopportarne le conseguenze.
Il ponte della Paglia si chiamerebbe così perché colà, nella paglia appositamente messa a terra, si disponevano i cadaveri degli annegati sconosciuti in attesa del riconoscimento da parte dei parenti, una specie di obitorio all’aperto. Ma come mai una volta era molto comune cadere in acqua e annegare? Molti annegamenti erano dei veri e propri omicidi che, con l’annegamento, non si veniva mai a sapere il colpevole. Si poteva cadere dalla barca o dai ponti che in quei anni non avevano le bande e, di notte, si camminava a tentoni poiché non c’era l’illuminazione pubblica. Molti dicono che il ponte si chiamerebbe così perché là veniva scaricata la paglia che serviva ai cavalli di palazzo ducale. Le stalle sarebbero state quei balconi con le inferriate che vediamo tutt’oggi.
Veniva dalla Certosa del Montello (Treviso) un liquore appena scoperto dai monaci subito battezzato aqua vitae. Siamo all’incirca nel 1500 e veniva citato da un medico del tempo: “conserva la vita a chi lo beve togliendo ai corpi ogni putritudine, custudisce e ripara, prolunga la vita, vivifica gli spiriti vitali, scalda lo stomaco, conforta il cervello, acuisce l’intelletto, chiarifica la vista et repara la memoria”. Era la Grappa.
In un decreto del Maggior Consiglio del 1476 si stabilisce che la fiuba e il cao ( la fibbia alle scarpe e la cintura) non dovessero superare il valore di 15 ducati. Questo per frenare l’esibizioni del lusso che da sempre è stata una delle prerogative dei veneziani di ogni centro sociale. Basti pensare che le fibbie a quel tempo toccavano terra e molte volte erano di oro massiccio per gli anziani e in argento per i bambini. Se girate nella prima calle a sinistra delle Mercerie troverete la calle Fiubera, cioè dov’erano i negozi che vendevano ogni tipo di fibbia.
Nel periodo del carnevale a Venezia si usava mangiare la torta di farro. Si cuoce della farina nel brodo, aggiungendo formaggio fresco e stagionato grattugiato, poi strutto, grasso di vitello ben cotto, si impasta il tutto con uova, zucchero e zafferano. Si mette l’impasto a strati con la polenta, cospargendola alla fine con zucchero e irrorandola con acqua di rose.
Nel ‘500 molti andavano matti per lo sciroppo di rose, quello che poi Nostradamus perfezionò chiamandolo rosolio e che diventò il liquore tipico di Venezia.
A Venezia, come in altre parti d’Italia e in Europa, molti ortaggi erano ritenuti velenosi, come gli spinaci, i piselli e gli asparagi. Fu solo dopo la fine del ‘500 che questi cibi cominciarono ad apparire sulle mense più raffinate.
A Venezia si usavano molto le spezie, vuoi perché ne aveva il monopolio, vuoi perché nascondevano, con il loro forte sapore, i “difetti” di molte pietanze.
A quel tempo veniva accostato, come si fa ora in molte cucine, l’agro, il dolce, il salato. Questo è un elenco di pietanze presenti ad una cena importante. Granseole lessate e condite con spezie d’Oriente, gamberetti con salsa di miele, canocie sfilettate con olio e pepe, cape longhe in graticola con pesto di prezzemolo, zucchero e aglio, cape sante cotte alla griglia e cosparse di olio, farina, limone e pepe, seppie in tocio, in umido bianco, branzino con salsa di uova, aceto e uva sultanina, gamberoni cotti sulla piastra ardente e cosparsi con una salsa fatta con rossi d’uovo, sale, pepe, spezie, miele d’acacia ed aceto aromatico, pesce alla griglia. Nella cena poi erano presenti una vasta scelta di volatili che abbondano nella laguna, carni di ogni genere e verdure degli orti di Venezia e delle isole come quella di S. Erasmo condite con un grande assortimento di salse.
Il palazzo veneziano conserva sempre la traccia della sua origine e cioè la casa-fondaco. E’ quindi la residenza del patrizio ma anche l’ azienda del mercante.
Ha due ingressi: uno dall’acqua dove entrano pure le merci chiamata riva, l’altro da terra, che può immettere in una corte con pozzo per l’approvvigionamento idrico e scala esterna. La merce arrivava quindi di solito via acqua e portata al piano di sopra, nel salone principale, per essere mostrata ai clienti. In futuro il salone principale veniva utilizzato solo per feste e ricevimenti. Al piano terra, lateralmente all’androne d’ingresso, v’era il mesà o piano ammezzato; le ali erano divise a metà in altezza e utilizzate come uffici amministrativi del mercante. Le stanze laterali al salone principale erano utilizzate come abitazione propria del “paròn de casa”. Infine il sottotetto abitato in origine dai servitori e dagli addetti all’azienda mercantile. Anche se negli ultimi quattro secoli della Serenissima è andata persa la vocazione originale di quella società di mercanti imprenditori si è voluto continuare a costruire rispettando quello stile divenuto oramai tipico della città lagunare.
Palazzo Mastelli o del Cammello a Cannaregio dalle parti della Madonna dell’Orto. Questa era la casa dei fratelli Rioba, Afani e Sandi Mastelli venuti dalla Morea nei primi anni del 1100 ed era la sede del loro commercio. Come mai si chiamavano Mastelli? Ma dal soprannome che i veneziani gli avevano affibbiato e cioè dai mastelli (catini) pieni di soldi che questi possedevano. I fratelli Mastelli li potete trovare nel campo dei Mori vicino l’entrata del palazzo. Le loro tre statue (ma ce n’é una quarta vicino alla loro e sarebbe quella del loro servitore e cioè quello col cammello qui sopra) sono scolpite nella pietra d’Istria e incastrate nel muro. Una leggenda dice che le statue sarebbero loro stessi pietrificati a causa della loro disonestà. Un giorno una donna andò da loro per vedere se c’era un qualche briciolo di onestà nei loro affari proponendo loro di dotare il suo negozio, appena avuto in eredità dal marito defunto, di stoffe della migliore qualità. I Mastelli, fiutando l’affare, proposero del materiale scadentissimo approfittando della sua ingenuità e inesperienza. Ma lei, che invece di stoffe se ne intendeva, nominando il nome di Dio, diede loro delle monete che, mentre le ebbero finalmente in mano, si trasformarono in pietra le monete e loro stessi. La donna andò via e al mattino dopo il servitore trovò le statue che vennero incastrate nel muro tempo dopo.
Quando passate per il Canal Grande dalle parti della fermata di SS. Ermacora e Fortunato (San Marcuola, c’est plus facil) noterete l’iscrizione “Non nobis” sulla facciata del palazzo del Casinò e cioè Ca’ Vendramin Calergi. “Non nobis” sarebbero le prime lettere del motto dei Cavalieri Templari: “Non nobis Domine, non nobis, sed nomini Tuo da gloriam”. Non a noi Signore, non a noi, ma dal Tuo nome dà gloria. Ma chi erano i templari? E cosa centrano con Venezia? Erano dei monaci guerrieri (la leggenda li vuole custodi del Santo Graal) che dovevano proteggere i pellegrini che si recavano in Terra Santa. Nati poverissimi, in pochi anni si sono talmente arricchiti al punto di essere invidiati da Papi e Re tra cui il Re di Francia Filippo il Bello anche perché con loro aveva un grosso debito. Talmente invidioso che cominciò a imprigionarli e a torturarli. Una leggenda dice che i Templari arrivarono a Venezia con un grosso tesoro che venne sotterrato a San Giorgio in Alga (l’isola che in questi giorni è in mano alla Protezione Civile per le loro esercitazioni). Tesoro che dovevano prelevare in un secondo tempo ma che poi non si seppe più nulla. Avevano un convento vicino a San Giorgio degli Schiavoni dove fino a pochi anni fa c’era il laboratorio della Croce di Malta e un’altro dove adesso c’é l’Albergo Luna Baglioni in calle Cà Vallaresso. E l’iscrizione “Non nobis” sulla facciata del Casinò? Un caso? Un messaggio per chi sa? L’Ordine dei Templari si sciolse nel 1312.
Fu la figlia di Filippo Sanudo che, in occasione di un matrimonio tra nobili veneziani, fece sfoggio di “pendenti nelle orecchie come i Mori”. Si fece forare i lobi e si infilò un anellino con una perla nera per orecchio: erano nati i primi orecchini.
Il ponte della Libertà, quello che collega il mondo con Venezia, è il ponte più lungo d’Italia con i suoi 3.623 metri e al momento della sua edificazione era il più lungo del mondo.
La sigaretta è probabilmente l’ennesima invenzione veneziana. Anche se si dice che a inventarla furono dei soldati musulmani, nei documenti veneziani di 50 anni prima si può leggere un divieto di vendere tabacco in “cartine”.